Andare a visitare nuove fiere o parteciparvi, è un aspetto del nostro lavoro, ma non avevamo mai calcolato l’opportunità di essere invitate a fare un work-shop sul make – up made in Italy, alla fiera internazionale di Damasco: “Cosmetic Expo 2008”.

La conoscenza reciproca, tra il nostro operare nel mondo del make-up a livello didattico e una fiera così lontana dall’occhio occidentale, è stata formalizzata attraverso mail e telefonate.

Sarà forse la personale fede nella “serendipità” (la capacità di trovare senza cercare) che ha ispirato il nome    del nostro centro benessere “Serendipity”, o sarà il fascino della proposta e quella tensione sottile e costante che lasciava intravedere una provocazione culturale reciproca, a noi del tutto nuova, che ci ha fatto decidere di vivere quest’avventura. 

Si trattava sicuramente di giocare fuori casa, in un paese di tradizioni diverse, soprattutto per ciò che riguarda il concetto di femminilità e noi eravamo state invitate a parlare su un aspetto non marginale di quest’argomento.

Aperte a questo scambio culturale, non sapendo bene cosa ci avrebbe aspettato, noi e il nostro staff, siamo partite alla volta della più antica capitale del mondo, la città famosa per i tessuti pregiati, i profumi e le storie affascinanti di racconti e fiabe poetiche da ” Mille e una notte “.

L’accoglienza è stata calda e rispettosa. La capitale del traffico mercantile, storicamente avvezza agli scambi commerciali, legata ad una sua identità araba, si è mostrata a noi, totalmente aperta alla diversità. Incuriosita dal nostro mondo, dalle nostre usanze, come noi del resto, dalle loro.

Il pubblico della sala riunioni che era stata adibita al work-shop, era numerosissimo: uomini e donne, professionisti del settore e non, donne con il capo coperto e altre completamente libere da veli.

Un rispetto reciproco tra usanze religiose diverse che coesistono pacificamente all’interno di uno stesso paese multietnico e con interpretazioni eterogenee anche sul mostrare la femminilità.

Dobbiamo ammettere che siamo rimaste sorprese di fronte alla grande attenzione che le donne arabe usano nei confronti del trucco.  Per noi italiane è un’abilità data quasi per scontata quella di alzarsi alla mattina e saper dissimulare o simulare ciò che si vorrebbe grazie all’elementare alchimia del belletto. Per la donna araba, mostrare il viso o parte di esso, significa saper fare sottile retorica: una parte per il tutto.

A pochi centimetri di pelle si affida il compito di comunicare la donna che è dentro.  

Gli occhi scuri ombreggiati dal kajal sono profondi come il profumo dell’incenso e sulle palpebre gli ombretti, dalle sfumature cangianti delle sete damascate, aprono lo sguardo di colori unici tra cielo e deserto. La pelle se ritagliata dal velo lungo i bordi del viso, è maggiormente esposta all’attenzione dello sguardo come i pavimenti lucidati a specchio delle moschee, e le bocche, che per loro stessa morfologia sono carnose e allungate, vivono in comparazione dello sguardo.

Il rituale dell’ornare il viso ha bisogno del suo tempo e dei suoi spazi, con la stessa attenzione con la quale si prepara il corpo al resto della vita sociale. Ci viene da sorridere, se pensiamo che noi donne occidentali, abituate a truccarci magari tra un semaforo rosso e un altro, mostriamo un’altissima percentuale del nostro corpo e se vediamo una donna dal capo velato attraversarci la strada, pensiamo subito al suo limite, a ciò che non può dire sulla sua femminilità, e non consideriamo che il limite è sempre relativo alla capacità di chi osserva.

Ci siamo sentite particolarmente donne e non semplicemente professioniste a Damasco. Forse la sensazione più appagante è stata quando al termine ci hanno abbracciato, stretto la mano, fotografato, toccato e annusato il nostro fare, il nostro sapere, la nostra esperienza.

Tra il rincorrersi dei richiami dei muezzin si sono scandite le nostre giornate lavorative, e quando siamo tornate a casa la nostra serendipità, e Serendipity stesso, profumavano di gelsomino, d’incenso e tabacco alla mela. Ci siamo ripromesse, una volta tornate, di scrivere di questa nota sensibile che ha arricchito il bouquet della percezione sul mondo dell’estetica dedicato alla donna.

Operare nel mondo del make-up significa fare comunicazione, proprio come si farebbe ponendo l’accento su una parola o sottolineando  una frase. A fronte di tutto questo, non vogliamo dire che noi Donne dobbiamo truccarci per forza, ma che se decidiamo di farlo, dobbiamo per lo meno essere consapevoli che stiamo facendo comunicazione: stiamo marcando un concetto, esponendo un pensiero al posto di un altro, simuliamo emozioni e ne dissimuliamo altre. 

Partendo da questo presupposto, truccarsi significa sapere di poter far uso di una comunicazione sottile, ma efficace nei confronti di qualsiasi altra persona. Si può avere l’abilità di far retorica o semplicemente la capacità di costruire un discorso diretto. Nel ridurlo a un gesto impersonale si commetterebbe l’errore di non comprendere la comunicazione degli altri.

Di fronte al trucco delle donne arabe, il nostro appare sicuramente diverso, ma la capacità di comprendere ciò che si vuole dire da parte di entrambi, fa scivolare meno nel pregiudizio e arricchisce di più la nostra professione.

Abbiamo scritto quest’articolo come truccatrici con il volto struccato e senza veli sul capo, sapendo che chi legge avrebbe capito che questo non sarebbe stato un limite.

Grazie

Fatma Greggio Bersani